Scrivo per lavoro. E nessuno lo avrebbe mai detto; o comunque di sicuro non lo avrebbe mai detto la mia insegnante di italiano del liceo, a cui non sono mai stata troppo simpatica.

Nella matematica e nei numeri ho sempre trovato il mio habitat naturale. Loro non hanno mai fatto domande. Si lasciavano modificare passo dopo passo, in un gioco di potere in cui mi sono sempre sentita vincente. Con le parole invece ho sempre fatto fatica: il gioco di potere lo hanno sempre vinto loro, complice la mia scarsa autostima. Scrivevo e poi correggevo, correggevo le parole e il pensiero, che una volta scritto mi sembrava sempre troppo estremo.

Poi è arrivata l’Università: la progettazione era come la matematica. Ci sono delle regole, e c’è il modo di usare quelle regole per ottenere un risultato, mai univoco, sempre interpretabile.

Dopo l’Università un bel lavoro, che mi ha fatto viaggiare, che mi ha fatto imparare, che mi ha fatto capire quali erano le mie capacità e quali i miei limiti.

E poi?

E poi il bivio, la grande domanda: ma sei sicura di voler proprio fare l’ingegnere? No, perché sicuramente puoi essere un bravo ingegnere, ma forse hai anche tempo per sperimentare, e per fallire, eventualmente.

Così ho deciso. Ho abbandonato la strada sicura per quella incerta: mi sono data spazio per l’errore, e ora sono qui, che progetto case e scrivo per lavoro.

E nessuno lo avrebbe mai detto.

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