Aspetto ogni mattina il vaporetto della linea 6 che da Sant’Elena porta a Zattere. Mi ritrovo a ondeggiare sull’imbarcadero per qualche minuto se sono fortunata, se invece sono in ritardo faccio appena in tempo a fiondarmi sul ponte del vaporetto e respirare l’umidità della laguna. Sono arrivata che era Settembre e ho dovuto fin da subito abituarmi a scendere alla fermata e non sorprendermi di avere l’acqua cinque centimetri sopra le suole.

A Venezia non c’è mai il cielo blu, ma sempre un po’ di foschia. Il sole è basso e dà fastidio agli occhi, per quello che si cammina sempre con le palpebre abbassate. L’inverno è freddo per davvero, spietato e senza scrupoli: si dice che se si supera il primo inverno, il resto è una strada in discesa.

Le calli fischiano quando c’è il vento e le barche gemono attraccate alla riva. Gli uomini invece stanno zitti durante il giorno, ma alla sera, quando bevono, parlano forte e con un accento che non riconosco. Sembra che cantilenino una filastrocca un po’ strascicata.

Venezia non è un città, ma un’anziana signora. Si sveglia e si addormenta presto, si innervosisce della confusione e tiene i suoi gioielli nascosti per paura che gli vengano rubati. Bisogna parlarle sottovoce e non essere irrispettosi. Spesso si agita e allora fa suonare una sirena e tutto si allaga, e non c’è altro da fare che rispettare il suo volere e immergersi nelle sue acque.

Devo fare ogni giorno i conti con la solitudine, con la vastità degli orizzonti e la mancanza delle montagne. Con il rimbombare dei passi, i gradini e i ponti scivolosi. Ma quando esco da Venezia esco dal mondo. Attraverso il Ponte della Libertà e l’universo mi crolla addosso e, come in una brusca frenata, i bagagli mi sbattono sulla schiena.

>>> Leggi di Carlotta e della sua Torino.

Venezia